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La Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner

“La Filosofia della Libertà” di Rudolf Steiner non è un libro da leggere passivamente, ma un invito all’azione, un’opera che aspira a trasformarsi in esperienza viva. Come direbbe Nietzsche, le sue parole devono “diventare carne e sangue”, penetrando nel profondo del lettore e plasmandone il modo di essere.
Quest’opera, che si erge tra le vette del pensiero moderno, si pone un obiettivo ambizioso: condurti all’esperienza del pensiero autenticamente libero. Un pensiero che si affranca dai condizionamenti dei sensi, dalle catene delle percezioni, per elevarsi a una dimensione superiore di consapevolezza.
Steiner, con il suo approccio rigoroso e al contempo profondamente umano, ci prende per mano e ci guida in un percorso di auto-osservazione. Attraverso l’analisi della nostra anima, delle sue dinamiche e delle sue potenzialità, ci insegna a riconoscere e a superare i limiti imposti dalla nostra natura sensibile.
“La Filosofia della Libertà” non offre soluzioni preconfezionate, ma strumenti per conquistare la libertà interiore. È un invito a un viaggio introspettivo, un percorso di conoscenza che, partendo dall’individuo, si apre all’universo e al suo mistero.

 

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Presentazione “La rivelazione della Sfinge” su MARGUTTE

 

Gli egizi antichi ritenevano che la Sfinge fosse depositaria di una sapienza vasta e profonda — così come nei trattati del Corpus Hermeticum è scritto che Thot, il dio della saggezza, abbia nascosto in un qualche luogo in Egitto le sue conoscenze segrete. Questi due fatti sono considerati dagli egittologi come racconti mitici, favole.
Invece in base a quanto ho scoperto ed espongo nel mio La rivelazione della Sfinge, entrambe queste notizie paiono essere puramente veridiche. Vale a dire che la Sfinge è effettivamente custode di una conoscenza arcana e segreta, la quale è inscritta in stele di natura assai particolare, riconducibili proprio ad esseri che si possono dire divini.
Pertinenziali alla Sfinge vi sono tre templi: il Tempio della Sfinge posto di fronte alle zampe della Sfinge, il Tempio della Valle adiacente al Tempio della Sfinge, e poi in aderenza alla seconda piramide, quella detta di Khafra, c’è il terzo Tempio, detto Mortuario, che è collegato al Tempio della Valle per mezzo di una strada rialzata lunga 500 metri. Ebbene secondo gli egittologi questi tre templi costituiscono, unitamente alla Sfinge ed alla seconda piramide, niente di più che il complesso funerario del faraone Khafra (Chefren in greco) della IV dinastia.
Invece questi tre giganteschi ed enigmatici templi raffigurano una precisa e deliberata comunicazione in forma di disegno, inscritto nella piana di Giza come un geroglifico megalitico, sfuggito alle analisi di generazioni di egittologi. La pianta di questi tre templi costituisce un disegno, dal significato inequivocabile ed autoevidente.
Questo documento, tanto concreto quanto pianamente razionale, si vedrà si accordi armonicamente con le diverse diramazioni della Scienza Sacra che da sempre innervano le civiltà della Terra, al punto anzi da costituire, il messaggio della Sfinge, il fondamento archetipico e la chiave di comprensione di quel vasto alveo di conoscenze che la mentalità occidentale, idolatra della più bieca ragione calcolante, non sa più intendere.

Scoprii vent’anni fa il geroglifico megalitico rappresentato dai tre templi pertinenziali alla Sfinge di Giza.
Ed il suo significato mi fu subito evidente: un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello di un pitecantropo. Un disegno affine alla creazione di Adamo affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina, con la differenza dell’essere il geroglifico della Sfinge molto più determinato ed accurato, animato da una precisione che a ben vedere non si può che dire scientifica. Il documento del quale la Sfinge è da millenni custode mostra la creazione dell’uomo, non naturalmente la creazione ex nihilo, bensì la sua formazione e modellazione a partire dai primati meno evoluti, da parte di esseri all’uomo superiori. Detto altrimenti, il geroglifico della Sfinge dichiara che l’uomo discenda dalle scimmie, così come riconosce il pensiero scientifico attuale, con la cruciale differenza, rispetto al pensiero scientifico, intorno alla causa della specificazione dell’homo sapiens, che non fu l’evoluzione fortuita di mutazioni genetiche casuali, bensì un intervento esterno, il quale, quantomeno rispetto all’ambito del pensiero occidentale, deve dirsi esoterrestre.
Mi avvidi appunto di questo messaggio in forma di disegno, dal valore particolarmente preciso e pregnante — che, se da un lato si accorda alle narrazioni religiose più diffuse, a partire del libro di Genesi, dall’altro pare con evidenza avvalorare le tesi di quegli autori che sostengono esservi nei testi sacri la descrizione di operazioni di ingegneria genetica operate da esseri superiori al fine di produrre l’uomo attuale.
Ed anche mi resi naturalmente conto della fragorosa novità che l’opera megalitica in sé costituiva rispetto al panorama delle conoscenze consolidate intorno alla civiltà egizia, anche perché nella trimillenaria conoscenza egizia vi è sì menzione dell’episodio secondo cui il dio Khnum avrebbe forgiato l’uomo sul tornio da vasaio e vi avrebbe insufflato la vita, ma appunto questa narrazione è si può dire secondaria rispetto al patrimonio acquisito dei cosiddetti miti religiosi egizi. Ed anche va considerato che i tre templi della Sfinge che rappresentano il disegno sono detti dagli archeologi essere niente altro che i templi del complesso funerario di un faraone, invece hanno la valenza autonoma loro propria, madornale ed eclatante, di istituire un messaggio, il che dissolve le credenze dell’egittologia secondo cui ogni monumento d’Egitto sarebbe stato voluto dai regnanti quale loro capricciosa tomba.
Cioè mi resi conto che la presenza di questo gigantesco disegno spezzava il senso sia delle scienze accademiche, sia del patrimonio condiviso del mondo occidentale, fino appunto a mettere in discussione il ruolo e la valenza del fondamento stesso del mondo occidentale, cioè la ragione, come più o meno agevolmente si potrà constatare da cosa espongo.


Perché, naturalmente, se è vero cosa asserisce questo disegno geroglifico allora tutto il complesso di credenze che costituiscono l’essenza del pensiero occidentale, dall’evoluzionismo al materialismo scientifico, vengono dissolte, e con loro viene dissolta anche la pretesa storia come concepita dal pensiero occidentale.
Ed ancora va ben considerato che la inconciliabilità dei tre templi della Sfinge con la narrazione storico-antropologica accademica, si afferma non solo quanto al contenuto del documento che i templi racchiudono, ma già anche per la conformazione materiale dei templi stessi. Infatti, proprio questi tre templi sono le opere in terra d’Egitto ad essere in sé le più insolite e misteriose, in quanto costituite da monoliti ciclopici, giganteschi, si può dire assurdi (e ciascuno di questi tre templi è ben più ampio della Sfinge stessa, anche se forse meno appariscente). Monoliti lunghi 9 metri, profondi 3,5 e alti 3, dal peso di oltre duecento tonnellate, gli altri di poco più piccoli ed alcuni ancor più immani, incastrati l’uno nell’altro in modo assolutamente perfetto. Come potè un popolo appena uscito dallo stadio dei cacciatori raccoglitori movimentare e mettere in opera blocchi di calcare di tale stazza? E infatti gli egittologi non hanno la minima idea di come questi templi furono costruiti, si limitano a prendere atto del fatto che questi sussistano e li incasellano nelle griglie della storiografia costruita a tavolino sulla base del darwinismo e del positivismo. Ed ancora questi templi presentano profondi segni di una erosione millenaria, proprio come la Sfinge e il suo recinto — ma ciò non deve stupire, giacché gli egittologi hanno accertato che i monoliti che costituiscono i tre templi furono ricavati dalla asportazione del materiale per il costruire la Sfinge, che come si sa è stata modellata in uno sperone roccioso sulla piana di Giza appunto asportando blocchi di calcare. E si aggiunga che secondo recenti e controversi studi, l’erosione della Sfinge e del recinto in cui è ubicata sarebbero compatibili solo con l’esposizione a abbondanti piogge, che occorsero in sito una decina di migliaia di anni fa. Anche le piramidi di Giza sono misteriose ed irriducibili ai paradigmi della storia quali ritenuti dagli egittologi, ma i tre templi del complesso della Sfinge incarnano tecniche e capacità costruttive che riflettono stadi di conoscenza davvero irriducibili ai paradigmi della scienza occidentale.
Quindi, proprio questi tre templi, indecifrabili e indatabili, costituiscono il gigantesco geroglifico di un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello un ominide dall’aspetto sciocco, evidentemente al fine di provocarne l’evoluzione — gli egittologi non hanno mai notato il disegno racchiuso nelle piante dei templi, pur avendole riprodotte in decine di testi a partire dalla fine dell’800, per il semplice motivo che chi cerca tombe solo complessi funerari può trovare.


Che fare, dunque, del documento che la Sfinge da millenni custodisce? Ovvero, ribaltando la domanda, perché ne ho taciuto per vent’anni?
Quanto più una scoperta è dirompente, tanto maggiore è la responsabilità che essa impone a chi ne sia il testimone.
Se da un lato è autoevidente il significato del messaggio ivi disegnato, dall’altro lato il livello di conoscenza e di coscienza della umanità attuale non è certo più quello di chi il messaggio vergò; anche solo semplicemente per il fatto che il complesso di conoscenze di chi interpreta orienta l’interpretazione, nell’ambito del circolo ermeneutico; nel senso che questo documento nel Medioevo sarebbe stato inteso come la raffigurazione del dio veterotestamentario che crea l’Adamo, mentre oggi che Dio è morto lo si può ricondurre tout court all’ipotesi che gli alieni abbiano modellato l’uomo, mentre in altri ambiti sapienziali si può dire raffiguri un essere non umano, ovvero un Buddha (e mi riferisco alla immagine tibetana secondo cui il genere umano fu creato dal Buddha Avalokhiteshvara, il Buddha della compassione, intervenendo su una scimmia), ovvero altrimenti.
Quindi c’è un primo problema che riguarda la “adeguatezza” dell’interprete, nel senso appunto del grado di duttilità ed abitudine mentale da parte di chi legge il messaggio, perché è chiaro che se si resta ancorati al pensiero materialistico contemporaneo si deve concludere che questo messaggio raffiguri comunque un mito, restando esclusa a priori l’ipotesi che possa dare conto di un evento effettivamente accaduto.
Nonché su questa problematica ermeneutica si innesta il fatto che le verità più importanti, come dice Platone nella Lettera VII, non debbano essere esposte alla derisione, e parimenti nemmeno alla supponenza di chi da un elemento tragga conclusioni in base a cosa pateticamente crede di sapere.
Ma questi aspetti problematici insiti nella responsabilità connaturata alla scoperta non debbono far venir meno la contestuale responsabilità che impone di doversi rendere noto il messaggio custodito dalla Sfinge, e ciò proprio per il fatto che questo messaggio non è da considerarsi un segreto, perché invece esso sta sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere ed è appunto come tale destinato ad essere comunicato. Nella Kore kosmou del Corpus Hermeticum è narrato che Ermete, cioè Thot, abbia deposto le sue stele recanti la conoscenza suprema da qualche parte in Egitto (in un luogo che come suggerisco nel testo è sicuramente identificabile con la piana di Giza), in attesa di qualcuno che imbattutosi in esse fosse in grado di leggerle — e peraltro questo meccanismo, di nascondere un documento affinché sia riscoperto nelle generazioni future, è assai ricorrente nell’ambito del Buddhismo tibetano, con il nome di terma i tesori, e il nome di terton per lo scopritore di testi nascosti e di gonter per lo scopritore di tesori della mente).
Tutti questi aspetti convergono insomma nel doversi essere analizzata la portata del documento della Sfinge nel contesto di una pluralità di scenari, coerenti con la logica va da sé, ma svincolati da quel complesso di credenze che è il pensiero scientifico occidentale.

Antonio Viglino

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Novità in libreria de Il passaparola dei libri

 

LA RIVELAZIONE DELLA SFINGE. La scoperta dei libri segreti di Thot, di Antonio Viglino (Harmakis Edizioni)

La Rivelazione Della Sfinge è un saggio di Antonio Viglino (Harmakis Edizioni, 2024) che abbiamo scelto di proporre ai lettori interessati all’esoterismo e all’

archeologia non convenzionale: si tratta di uno studio sui tre templi che costituiscono l’area delle piramidi e della Sfinge a Giza, che gli egittologi identificano come il complesso funerario in onore del faraone Khafra della IV dinastia ma che il saggio in esame ritiene, invece, il progetto della Creazione dell’uomo da parte di esseri superiori.

Sotto forma di geroglifico, il disegno dimostrerebbe, secoli prima della relativa evidenza scientifica, come l’uomo discenda dalle scimmie ma non tramite fortuite combinazioni genetiche, bensì tramite un vero e proprio intervento esterno di ingegneria genetica a livello cerebrale . Il documento concorderebbe, quindi, non solo con i miti sulla Creazione presenti in quasi tutte le religioni e dmitologie del pianeta Terra, ma confermerebbe i fondamenti di alcunepratiche legate al pensiero esoterico e alle pratiche meditative più antiche, come lo yoga.

Un libro che senza dubbio interesserà gli appassionati di storia alternativa ma che potrà incuriosire anche gli altri lettori.

Fonte: www.novitainlibreria.it

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NOVITA’ IN LIBRERIA – INTERVISTA ALL’AUTORE – ANTONIO VIGLINO

Abbiamo intervistato Antonio Viglino che ci ha parlato del suo ultimo lavoro “La rivelazione della Sfinge”.

 

Antonio Viglino, piemontese, collabora da tempo con la rivista online Margutte ed è autore di studi a carattere filosofici e di un saggio, recentemente pubblicato, di archeologia “alternativa” La Rivelazione Della Sfinge (Harmakis Edizioni, 2024) uno studio sui tre templi che costituiscono l’area delle piramidi e della Sfinge a Giza, interpretato come il progetto della Creazione dell’uomo da parte di esseri superiori.

 

Lo abbiamo intervistato per i suoi lettori.

Come è nata l’idea alla base di un libro così particolare?

Non appena realizzai la scoperta decisi di divulgarla ma ho lasciato passare vent’anni prima di scrivere il libro perché non ne volevo parlare fino a che non avessi risolto le implicazioni e i presupposti che la scoperta stessa mi imponeva chiarissi; così, in un lungo percorso, per oltre un ventennio mi dedicai alla riscoperta della filosofia, alla lettura dei testi fondamentali del pensiero occidentale, dell’alchimia, della Qabbalah, dello gnosticismo, nonché, va da sé, sull’egittologia e, infine, scoprii i Tantra.

Una lettura che ti ha influenzato?

Mi ero sempre fermamente astenuto dal leggere testi provenienti dall’India, per il timore che la mentalità occidentale me ne avrebbe precluso l’intesa; avevo però nella biblioteca il Tantraloka di Abhinavagupta, così constatai che tutte le nozioni fondamentali del pensiero essenziale heideggeriano trovano riscontro letterale per identità noetica; mi appassionai ai Tantra avendone la chiave di ingresso grazie in particolare alla lettura dei testi di Heidegger.

 

Parliamo dei Tantra Del Pensiero Occidentale. E’ il progetto di un’opera tripartita, della quale La Rivelazione Della Sfinge costituisce, in realtà il secondo capitolo; nel primo metto a confronto il pensiero di Platone con il pensiero effettivo di Heidegger e con i testi esoterici delle diverse Tradizioni, ma è ancora inedito.

La Rivelazione Della Sfinge come si collega al precedente lavoro?

La prima versione de La Rivelazione Della Sfinge (con il titolo Nel regno di Zokar) era legata ai Tantra del pensiero occidentale ma era molto sintetica e stringata e così estrapolai nozioni da quel testo e le integrai da rendere chiara l’essenza del mio progetto, una trilogia della quale lo studio sulla Sfinge dovrebbe essere seguito da uno in cui parlo della equazione tra dèi, Atlantide e Kundalini.

Pensi di pubblicarlo, in futuro?

Dopo averlo approfondito, mi piacerebbe.

Quanto c’è di te e delle tue esperienze personali nel tuo libro?

Mai una persona che scrive di esoterismo può dire se nello scritto siano riversate sue proprie esperienze, perché entrerebbe in conflitto con la finalità stessa del testo esoterico, la quale è quella di perpetuare la Tradizione della Scienza Sacra.

Qual è il tuo rapporto con i tuoi lettori?

Chi scrive testi esoterici da un lato non può che essere disponibile a rispondere alle domande che gli siano sinceramente poste, e dell’altro, però, non mira ad imporre la visione della realtà che espone.

E’ facile conciliare l’attività di scrittore con la vita di tutti i giorni?

Per me è sempre stato molto facile, perché scrivere è un gioco, lila si dice in India, e a giocare ci si diverte solo se se ne ha l’entusiasmo.

Come ti descriveresti, come lettore?

Onnivoro e mi dispiace un po’ di non poter leggere libri che immagino interessanti ma che non hanno attinenza con i sentieri che seguo.

Come sei arrivato alla pubblicazione del tuo libro?

La mia Casa Editrice si chiama Harmakis e pubblica testi di egittologia (mi pare sia l’unico editore italiano dei Testi delle Piramidi, con testo geroglifico, traslitterazione e traduzione) e di esoterismo: quindi si può dire il luogo naturale per la mia Sfinge, però temevo un rifiuto; invece l’editore sin da subito è stato entusiasta del mio libro, e ogni fase editoriale è stata anch’essa un gioco, seppur impegnativo.

Come valuti l’influenza e l’importanza delle reti sociali e della tecnologia per uno scrittore indipendente o comunque che pubblica al di fuori dei colossi dell’editoria?

Tempus regit actum: viviamo nella civiltà della tecnologia sempre più estrema, sempre più per certi versi utile e per altri demenziale, non resta che prenderne atto; al di là di questa battuta filosofica, trovo che le reti sociali oggi siano importanti, per i piccoli editori come per i grandi, per promuovere le pubblicazioni.

Fonte: www.novitainlibreria.it

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LA RIVELAZIONE DELLA SFINGE – Antonio Viglino

 

La Rivelazione Della Sfinge è un saggio di Antonio Viglino (Harmakis Edizioni, 2024) che abbiamo scelto di proporre ai lettori interessati all’esoterismo e all’archeologia non convenzionale: si tratta di uno studio sui tre templi che costituiscono l’area delle piramidi e della Sfinge a Giza, che gli egittologi identificano come il complesso funerario in onore del faraone Khafra della IV dinastia ma che il saggio in esame ritiene, invece, il progetto della Creazione dell’uomo da parte di esseri superiori.

Sotto forma di geroglifico, il disegno dimostrerebbe, secoli prima della relativa evidenza scientifica, come l’uomo discenda dalle scimmie ma non tramite fortuite combinazioni genetiche, bensì tramite un vero e proprio intervento esterno di ingegneria genetica a livello cerebrale . Il documento concorderebbe, quindi, non solo con i miti sulla Creazione presenti in quasi tutte le religioni e dmitologie del pianeta Terra, ma confermerebbe i fondamenti di alcune

pratiche legate al pensiero esoterico e alle pratiche meditative più antiche, come lo yoga.

Un libro che senza dubbio interesserà gli appassionati di storia alternativa ma che potrà incuriosire anche gli altri lettori.

LA RIVELAZIONE DELLA SFINGE – Antonio Viglino

 

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Il Viaggio di Harmakis – Amore e Psiche

La favola di Amore e Psiche scritta da Lucio Apuleio all’interno delle Metamorfosi, è una vera e autentica fiaba, dove esistono atmosfere magiche e incantate come nella tradizione popolare. Un racconto da tutto il mondo conosciuto, di cui sono state date le più disparate interpretazioni, ma che affascina i lettori da quasi duemila anni. Del suo autore Apuleio, nato nel 125 d.C. nell’odierna Algeria, sappiamo che veniva da una famiglia molto ricca, si formò a Cartagine, studio filosofia ad Atene. Ritornato in Africa dove svolse attività di avvocato, conobbe Pudentilla, madre di un suo compagno di studi che sposò. Fu accusato di magia e stregoneria dalla quale si difese con una famosa orazione dal nome Apologia o De magia. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Cartagine morendo presumibilmente nel 170 d.C. La favola di Amore e Psiche è una novella compresa nell’opera maggiore di Apuleio, L’asino d’oro.

Conduce: Leonardo Paolo Lovari

Voce Narrante: Rosanna Lia

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Antico Egitto: manuale di mummificazione

Mummia

Quando si parla di mummificazione, pensiamo subito ai faraoni e all’Antico Egitto: e a ragione, perché gli egizi sono stati pionieri e maestri nei procedimenti di conservazione dei defunti, considerati una vera e propria arte i cui segreti venivano tramandati principalmente per via orale. Fino a poco tempo fa eravamo a conoscenza di soli due testi sul tema: ora se ne aggiunge un terzo, un vero e proprio manuale sulla mummificazione, contenuto all’interno di un papiro medico. È il cosiddetto Papiro Louvre-Carlsberg, così chiamato per via della proprietà condivisa tra il museo francese del Louvre e la collezione di papiri della Carlsberg Foundation (Danimarca): lungo sei metri, risale al 1450 a.C. circa, ed è di ben mille anni più antico degli altri due manoscritti sulla mummificazione.

Il testo non è rivolto ai neofiti del mestiere, ma funge piuttosto da promemoria per gli addetti ai lavori: non tratta infatti le tecniche di base della mummificazione, ma descrive i dettagli di alcuni procedimenti, come la preparazione di unguenti e l’uso di diversi tipi di bende. In particolare spiega in che modo mummificare il volto del defunto, utilizzando sostanze ricavate da piante aromatiche e cotte in un liquido che il mummificatore spalmava su teli di lino rosso, che andavano poi appoggiati sul volto della futura mummia. «La descrizione di questo procedimento è uno dei dettagli più interessanti del manuale», afferma Sofie Schiødt, l’egittologa che ha revisionato il papiro.

Questa procedura, fino ad oggi sconosciuta, veniva ripetuta ogni quattro giorni, per 17 volte. La mummificazione durava in totale circa 70 giorni: i primi 35 servivano a svuotare e seccare il corpo, che nei restanti 35 giorni veniva avvolto, profumato e riposto nella bara. Negli intervalli tra un procedimento e l’altro, i mummificatori coprivano il cadavere con teli e bacchetti di incenso, che accendevano per tenere lontani insetti e scarafaggi. Un procedimento lungo e complicato, che si concludeva con la celebrazione di riti religiosi volti ad accompagnare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà.

La Mummificazione – Pietro Testa

 

https://www.focus.it/cultura/storia/manuale-mummificazione-antico-egitto

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L’Antico Egitto – Tra misteri e scoperte

Sabato 12 Ottobre 2019 a Cavriglia (Ar)

Una giornata interamente dedicata all’Egitto:
“L’Antico Egitto: tra misteri e scoperte”
ospite lo scrittore inglese best-seller Adrian Gilbert.

Mattino: ore 9.00 Auditorium del Museo Mine a Castelnuovo dei Sabbioni incontro riservato ai ragazzi delle scuole
Programma:
– Saluti istituazionali dell’Amministrazione Comunale
– Introduzione all’Antico Egitto a cura di Leonardo Lovari
– “Piramidi, geometria e connessioni stellari” di Adrian Gilbert

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Pomeriggio: ore 18.00 Teatro Comunale di Cavriglia (Piazza Berlinguer) incontro pubblico gratuito e aperto a tutti.
Il programma:
– Saluti istituazionali dell’Amministrazione Comunale
– Presentazione Harmakis Edizioni e la Stele del Sogno a cura di Leonardo Lovari
– “Osiride, Stelle, Piramidi e resurrezione” di Adrian Gilbert

Ingresso Gratutito

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The adventures of Belzoni, the Italian Indiana Jones who rediscovered ancient Egypt

Few people know that the character of Indiana Jones, born from the imagination of George Lucas, is inspired by a man who really existed. Moreover an Italian. His name was Giovanni Battista Belzoni, from Padua, who lived between the eighteenth and nineteenth centuries. If Indiana Jones’s life seems adventurous to you, it’s because you haven’t read Belzoni’s memoirs.

To the delight of enthusiasts, a new edition of Viaggi in Egitto and Nubia, published by Harmakis, has just been published (pages 190, € 16). The volume, written and published by Belzoni in 1820, after his definitive return from Egypt, and translated into various languages, obtained an extraordinary success and made him a man famous throughout the world. Even Tsar Alexander I received him in St. Petersburg giving him a precious topaz ring surrounded by twelve diamonds. Belzoni was an unusual individual from the outset. More than two meters tall, he possessed a prodigious force: he was able to lift ten men who had been placed on a support loaded on his shoulders. Handsome, self-confident, self-controlled, he possessed charm and charisma at will. As soon as he entered a room, people looked at him admiringly, as if subdued by his presence. The viceroy of Egypt, Muhammad Ali, a grim and ruthless man, was impressed by his respectful but casual manner.

Belzoni was born in 1778. As a boy he had assisted his father in his barber shop. At sixteen he moved to Rome to study hydraulic engineering: here he was passionate about archeology. But when Napoleon’s troops fell he had fled to the sly, also to avoid being drafted into the Armée. Having reached England in 1803 (a country he began to love almost as much as his native country), he married a young woman from Bristol, Sarah Banne. With the hopes of finding employment in the field of hydraulic engineering (in England the studies in that sector were at a much more advanced stage), he thought of exploiting his physical skills starting to perform in popular theaters like “Samson of Patagonia” before, and as a magician and magician then, between severed hands and women sawed in two. He also became famous for aquatic shows, complete with simulated naval battles. A period for which he later felt ashamed and tried in every way to forget (when someone reminded him of it he was furious).

But his life took a turn during his first trip to Egypt (at the time a province of the Ottoman Empire), after a brief stay in Malta. Once arrived in the land of the pharaohs, in Alexandria, with his wife and faithful Irish servant in tow, after a period of quarantine due to the plague that scourged the city, he came into contact with the circles linked to the British secret services, who thought they use him both as an informant and for the recovery of valuable archaeological finds located in high-risk areas. In those years, also thanks to the spectacular Napoleonic expedition in the land of the pyramids, with artists and scholars in tow, a fever blazed up for all that was Egyptian: the obelisks taken from the desert went to adorn the Parisian and London squares, and mummies, sarcophaguses and statues began to fill the halls of the main European museums.

Actually Belzoni had come to Egypt to build an innovative hydraulic machine for watering fields to sell to the viceroy, in the hope of producing them in series and getting rich. But some court officials had managed to wreck his projects by sabotaging the prototype, which had jammed right under Muhammad Ali Pascià’s implacable eyes.

Left penniless Belzoni had agreed to work for the British consul general, Sir Henry Salt. At that time a race was in progress between the French and the British for the possession of the most precious finds scattered in the various archaeological sites of the immense country. Soon between Belzoni, in the service of the British, and Bernardino Drovetti, general consul of France with solid relations at court, the rivalry reached its climax, and the two did not spare the low blows, even coming to the hands (needless to say who had the worst ). Belzoni was one of the few who dared venture along the Nile to Upper Egypt and even in Nubia, a wild and extremely dangerous land, inhabited by belligerent tribes, always at war with each other; the only one who has the guts to climb into dark and mephitic caves, and to venture along dark tunnels and sprinkled with human bones and skulls. During these expeditions, at the risk of his life (in several circumstances, armed with his inseparable guns, he had had to show strength and cold blood, defending himself against the rapaciousness of the local populations and the marauders of the desert), he managed to bring to light in the arch five years (from 1815 to 1819) finds of immense value, then transported to England and sold to the highest bidder, mostly at the British museum, where we can still admire them. The clashes with Drovetti (part of whose collection was sold in 1824 to the King of Sardinia, to then find a worthy place in the Egyptian Museum of Turin) became more and more frequent and violent, until it culminated in a process following which Belzoni was forced to leave Egypt forever (being able to count the rival on the support of the viceroy). The enmity between the two had become legendary. Drovetti, an explorer and art collector, a cultured man and gifted with great charm, had Piedmontese origins, but was closely linked to Napoleon; therefore after the definitive fall of the course he was recalled to his homeland but, refusing to obey, he ended up putting himself at the service of the viceroy of Egypt: returned to Piedmont many years later, he died at the age of 76 in Turin (according to some in a mental hospital ).

As for Belzoni, who became an expert in Egyptology, during his expeditions along the Nile he became the protagonist of extraordinary discoveries and discoveries. After succeeding in the task of transporting the colossal bust of Ramses II from Luxor (the ancient Thebes) to London (which at the time was thought to represent the mythological Ethiopian king Memnon, a descendant of the Trojan king Priamus), first, in 1817 , succeeded in penetrating the rupestrian temple of Abu Simbel, built in the 13th century a. C. by the pharaoh Ramses II and at the time of Belzoni considered inaccessible. The monumental temple, located in the current governorate of Aswan, on the shore of Lake Nasser, had been discovered four years earlier by the Swiss explorer and orientalist Johann Ludwig Burckhardt, who, having become a friend of the Italian, had encouraged and supported him in many of his exploits .

After having brought to light precious statues in Karnak and in the Valley of the kings (including an imposing statue of Amenofi III and the sarcophagus of Ramses III, sold to King Louis XVIII and now exhibited in the Louvre), Belzoni succeeded where many had failed, beating Drovetti over time who wanted to use explosives to break through: it was he who identified the entrance to the pyramid of Chefren, in Giza, in which, as he used to do, he affixed his showy signature (although it soon became clear that the pyramid had been violated six hundred years before by the Arabs). But his most important discovery was undoubtedly the discovery, in the Valley of the Kings, of the marvelous tomb of Pharaoh Seti I (father of Ramses II), entirely decorated with paintings and bas-reliefs in a blaze of colors, and still marked today as tomb Belzoni.

It seems incredible but all this was not enough to make him a rich man. Having often had to personally bear the costs of his expeditions (and perhaps not being cut out for business), from the sale of the numerous artifacts he conducted in Europe and from the success of his book, Belzoni barely got enough to pay off the debts accumulated over the years. Disappointed and discontented, also because he was snubbed by the academic world who judged him nothing more than an amateur and an adventurer, in 1823, after having stayed in Padua (which welcomed him as a hero), he decided to embark on a mad undertaking but, to his judgment, he would have handed him over to the legend: he would have left for the legendary Timbuktu, the city with the golden roofs, in Mali, and in search of the sources of the Niger river, despite the opposition of his wife (from Benin and Mali, yes he said, no explorer had ever returned. And in fact the fate was lurking: shortly after landing in Africa, in the Gulf of Benin, and having reached the river port of Gwato, Belzoni was assaulted by a violent fever and, after having tried to cure himself with opium and castor oil, he died of dysentery. Not before sipping a cup of tea and writing his last letter addressed to his wife (who for the first time refused to take with her despite the woman’s insistence). It was December 3, 1823. He was buried at the foot of a large tree, in a trench three meters deep, under a stone tombstone. Today there is no trace of the tombstone. And not even the tree is known anymore.

http://www.ilgiornale.it/news/avventure-belzoni-lindiana-jones-italiano-che-riscopr-1741048.html

 

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Le avventure di Belzoni, l’Indiana Jones italiano che riscoprì l’antico Egitto

Pochi sanno che il personaggio di Indiana Jones, nato dalla fantasia di George Lucas, è ispirato a un uomo realmente esistito. Per di più un italiano. Il suo nome era Giovanni Battista Belzoni, padovano, vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento. Se la vita di Indiana Jones vi pare avventurosa è perché non avete letto le memorie di Belzoni.

Per la gioia degli appassionati è appena uscita una nuova edizione di Viaggi in Egitto ed in Nubia, edito da Harmakis (pagg. 190, euro 16). Il volume, scritto e pubblicato da Belzoni nel 1820, dopo il suo definitivo ritorno dall’Egitto, e tradotto in varie lingue, ottenne uno straordinario successo e fece di lui un uomo famoso in tutto il mondo. Perfino lo zar Alessandro I lo ricevette a San Pietroburgo facendogli dono di un prezioso anello con topazio circondato da dodici diamanti. Belzoni era un individuo fuori del comune, fin dall’aspetto. Alto più di due metri, possedeva una forza prodigiosa: era capace di sollevare dieci uomini fatti salire su un sostegno caricato sulle spalle. Bello, sicuro di sé, dotato di autocontrollo, possedeva fascino e carisma a volontà. Non appena entrava in una stanza la gente lo guardava ammirata, come soggiogata dalla sua presenza. Lo stesso viceré d’Egitto, Muhammad Ali, uomo truce e spietato, rimase impressionato dai suoi modi rispettosi ma disinvolti.

Belzoni era nato nel 1778. Da ragazzo aveva assistito il padre nella sua bottega di barbiere. A sedici anni si era trasferito a Roma per compiere studi di ingegneria idraulica: qui si era appassionato all’archeologia. Ma alla calata delle truppe napoleoniche era fuggito alla chetichella, anche per evitare di venire arruolato nell’Armée. Raggiunta l’Inghilterra nel 1803 (Paese che prese ad amare quasi al pari di quello natio), si sposò con una giovane di Bristol, Sarah Banne. Deposte le speranze di trovare impiego nel campo dell’ingegneria idraulica (in Inghilterra gli studi in quel settore erano a uno stadio molto più avanzato), pensò di sfruttare le sue doti fisiche iniziando a esibirsi nei teatri popolari come «Sansone della Patagonia» prima, e come mago e prestigiatore poi, tra mani mozzate e donne segate in due. Divenne famoso anche per gli spettacoli acquatici, con tanto di battaglie navali simulate. Un periodo per il quale in seguito provò vergogna e che cercò in ogni modo di dimenticare (quando qualcuno glielo ricordava andava su tutte le furie).

Ma la sua vita andò incontro a una svolta durante il suo primo viaggio in Egitto (all’epoca una provincia dell’impero ottomano), dopo un breve soggiorno a Malta. Una volta giunto nella terra dei faraoni, ad Alessandria, con la moglie e il fedele servitore irlandese al seguito, dopo un periodo di quarantena dovuta alla peste che flagellava la città, entrò in contatto con gli ambienti legati ai servizi segreti britannici, che pensarono di servirsi di lui sia come informatore sia per il recupero di preziosi reperti archeologici situati in zone ad alto rischio. In quegli anni, anche grazie alla spettacolare spedizione napoleonica nella terra delle piramidi, con artisti e studiosi al seguito, divampava una febbre per tutto ciò che era egizio: gli obelischi sottratti al deserto andavano ad adornare le piazze parigine e londinesi, e mummie, sarcofaghi e statue cominciavano a riempire le sale dei principali musei europei.

In realtà Belzoni era venuto in Egitto per realizzare un’innovativa macchina idraulica per l’irrigazione dei campi da vendere al viceré, nella speranza di produrne in serie e arricchirsi. Ma alcuni funzionari di corte erano riusciti a far naufragare i suoi progetti sabotando il prototipo, che si era inceppato proprio sotto gli occhi implacabili di Muhammad Ali Pascià.

Rimasto senza un soldo Belzoni aveva accettato di lavorare per il console generale britannico, sir Henry Salt. A quel tempo era in corso una gara tra francesi e inglesi per il possesso dei più preziosi reperti sparsi nei vari siti archeologici dell’immenso Paese. Ben presto tra Belzoni, al servizio dei britannici, e Bernardino Drovetti, console generale di Francia con solide relazioni a corte, la rivalità raggiunse il culmine, e i due non si risparmiarono i colpi bassi, venendo perfino alle mani (inutile dire chi ebbe la peggio). Belzoni era tra i pochi che osavano avventurarsi lungo il Nilo fino all’Alto Egitto e perfino in Nubia, terra all’epoca selvaggia e pericolosissima, abitata da tribù bellicose, sempre in guerra tra loro; l’unico ad avere il fegato per calarsi in grotte buie e mefitiche, e ad avventurarsi lungo cunicoli bui e cosparsi di ossa e teschi umani. Durante queste spedizioni, a rischio della vita (in parecchie circostanze, armato delle sue inseparabili pistole, aveva dovuto dar prova di forza e sangue freddo, difendendosi dalla rapacità delle popolazioni locali e dei predoni del deserto), riuscì a riportare alla luce nell’arco di cinque anni (dal 1815 al 1819) reperti di immenso valore, poi trasportati in Inghilterra e venduti al migliore offerente, per lo più al British museum, dove ancora li possiamo ammirare. Gli scontri con Drovetti (parte della cui collezione fu ceduta nel 1824 al re di Sardegna, per poi trovare una degna collocazione nel Museo egizio di Torino) divennero sempre più frequenti e violenti, fino a sfociare in un processo a seguito del quale Belzoni fu costretto a lasciare l’Egitto per sempre (potendo contare il rivale sull’appoggio del viceré). L’inimicizia tra i due era divenuta leggendaria. Drovetti, esploratore e collezionista d’arte, uomo colto e dotato di grande fascino, aveva origini piemontesi, ma era legato a doppio filo a Napoleone; perciò dopo la definitiva caduta del corso venne richiamato in patria ma, rifiutatosi di obbedire, finì per mettersi al servizio del viceré d’Egitto: tornato in Piemonte molti anni dopo, morirà all’età di 76 anni a Torino (secondo alcuni in un manicomio).

Quanto a Belzoni, divenuto esperto di egittologia, nel corso delle sue spedizioni lungo il Nilo si rese protagonista di ritrovamenti e scoperte straordinarie. Dopo essere riuscito nell’impresa di trasportare da Luxor (l’antica Tebe) a Londra il colossale busto di Ramses II (che all’epoca si riteneva raffigurasse il mitologico re etiope Memnone, discendente del re troiano Priamo), per primo, nel 1817, riuscì a penetrare nel tempio rupestre di Abu Simbel, fatto erigere nel XIII secolo a. C. dal faraone Ramses II e all’epoca di Belzoni ritenuto inaccessibile. Il monumentale tempio, situato nell’attuale governatorato di Assuan, sulla riva del lago Nasser, era stato scoperto quattro anni prima dall’esploratore e orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt, che divenuto amico dell’italiano lo aveva incoraggiato e appoggiato in molte delle sue imprese.

Dopo avere portato alla luce preziosissime statue a Karnak e nella Valle dei re (tra cui un’imponente statua di Amenofi III e il sarcofago di Ramses III, venduto a re Luigi XVIII e oggi esposto al Louvre), Belzoni riuscì dove molti avevano fallito, battendo sul tempo Drovetti che voleva impiegare dell’esplosivo per aprirsi un varco: fu lui infatti a individuare l’accesso alla piramide di Chefren, a Giza, all’interno della quale, come era solito fare, appose la sua vistosa firma (anche se ben presto fu chiaro che la piramide era stata violata seicento anni prima dagli arabi). Ma la sua scoperta di maggiore rilievo fu senz’altro il ritrovamento, nella Valle dei re, della meravigliosa tomba del faraone Seti I (padre di Ramses II), interamente decorata con pitture e bassorilievi in un tripudio di colori, e ancora oggi contrassegnata come tomba Belzoni.

Sembra incredibile ma tutto questo non bastò a fare di lui un uomo ricco. Avendo dovuto spesso sostenere personalmente le spese delle sue spedizioni (e forse non essendo tagliato per gli affari), dalla vendita dei numerosi reperti da lui condotti in Europa e dal successo del suo libro Belzoni ricavò appena di che estinguere i debiti accumulati negli anni. Deluso e scontento, anche perché snobbato dal mondo accademico che lo giudicava niente più che un dilettante e un avventuriero, nel 1823, dopo avere soggiornato a Padova (che lo accolse come un eroe), decise di imbarcarsi in una impresa folle ma che, a suo giudizio, lo avrebbe consegnato alla leggenda: sarebbe partito alla volta della leggendaria Timbuctù, la città dai tetti d’oro, nel Mali, e alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger, nonostante la contrarietà della moglie (dal Benin e dal Mali, si diceva, nessun esploratore era mai tornato). E difatti il fato era in agguato: poco dopo essere sbarcato in Africa, nel golfo di Benin, e avere raggiunto il porto fluviale di Gwato, Belzoni fu assalito da una febbre violenta e, dopo avere tentato di curarsi con oppio e olio di ricino, morì di dissenteria. Non prima di avere sorbito una tazza di tè e avere scritto la sua ultima lettera indirizzata alla moglie (che per la prima volta aveva rifiutato di portare con sé nonostante le insistenze della donna). Era il 3 dicembre 1823. Fu sepolto ai piedi di un grosso albero, in una fossa profonda tre metri, sotto una lapide di pietra. Oggi della lapide non vi è traccia. E nemmeno l’albero si sa più quale sia.

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